Il potere primigenio dello storytelling funzionava grazie alla voce di chi raccontava e all’orecchio di chi ascoltava. Questo ciclo creava comunità, una comunità fisica radunata insieme, seduta intorno “al fuoco”, e una comunità interiore seduta intorno a valori condividi.
Ascoltare l’altro (che deve essere bravo a tenere alta l’attenzione, che deve avere una valida storia, che deve conoscre i valori che ti scorrono nelle vene, e che deve saper raccontare) innesca un processo di intensa metabolizzazione della storia e del suo messaggio profondo e coinvolge i neuroni. Aggiungo: ascoltare l’altro “educa”, indirettamente, a una pratica educativa: ascoltarsi dentro, ascoltare la vita, ascoltare il mondo, ascoltare i luoghi.
I nostri occhi, nel corso del tempo, sono diventati i protagonisti della ricezione di narrazioni. Oggi forse sono stanchi (i miei sicuramente, ve lo confesso), sovra-stimolati da miliardi di lettere, parole, immagini, frasi, video, messaggi, un’enciclopedia di materiale ricondiviso e accessibile grazie anche al “democratico” web e ai social network “per tutti”. Non dico che sia male, è andata così. Ciò che dico è che non ci siamo radunati poi così tanto intorno a un “fuoco” per ascoltare, insieme, usando l’udito fisico. Siano passati alla lettura (prima tanta, poi forse oggi un po’ di meno), abbiamo letto più che ascoltato le narrazioni, e in maniera più individuale. Ogni tanto ci organizziamo anche per condividere letture e narrazioni, ma la prima esperienza in genere è individuale. Chiamiamolo cambiamento, stile, esigenza, comodità, necessità, prendiamone atto, tutto qui, senza giudicare che sia male o bene.
Nel XXI secolo la vita frettosa e stressante, la riduzione del tempo e della soglia di attenzione, il cambiamento dei media narrativi stanno contribuendo a un’inversione di tendenza. Mi domando dunque, se la cresciuta del settore audiolibri, la diffusione del podcasting, i gruppi (social e non) di lettura condivisa (favoriti anche dalla pandemia da Covid-19) e l’ultimo fenomeno di Clubhouse siano segno di un ritorno al primo storytelling? Possono riuscirci? Può essere letto come un’esigenza interiore, profonda, di tornare ad ascoltare, di riposare gli occhi, di tornare al suono di “una voce”, “della voce”? La pandemia ci sta insegnando il valore dell’ascolto e di essere ascoltati, il silenzio dello sguardo (ogni tanto) e la ricostruzione di quella comunità radunata che ascolta qualcuno che racconti una storia?
L’arte della narrazione (che per l’uomo, prima di un’arte, è una modalità sociale e genetica, come respirare e bere), se ci pensiamo bene, ha bisogno innanzitutto della voce. Possiamo anche non vedere le storie e il processo di narrazione delle storie, ma possiamo ascoltarle, ci basta l’udito. Era così nella notte dei tempi. Difficile è viceversa: è vero che un’immagine può avere una carica narrativa (visual storytelling) ma non sarà mai piena e completa (e intuibile da tutti), se mancherà il logos che la decifri (e il logos supportato dal visivo a sua volta si potenzia e si imprime meglio nella mente). Poi se vogliamo andare nello specifico, c’è immagine e immagine, non basta vedere un bel quadro, una bella statua, una bella chiesa, una bella veduta, un bel anello, un bel tempio antico. Non si conosce la storia che c’è dietro e non la si intuisce al volo. C’è bisogno di qualcuno che ce la racconti, che ce la sveli. L’immagine in sé può essere solo iconografia, didascalia, descrizione, oggetto rappresentato e tutti la capiamo, ma la narrazione no. La narrazione non si scolpisce, non si dipinge, non si incide. Si costruisce, è il narratore che elabora e tesse la trama. Nel caso di un’intera sala museale, di una collezione artistica, di un apparato decorativo, di un percorso urbano, la complessità è maggiore.
Ascoltare attiva la fantasia e fa nascere figure e luoghi mentali forse in modo più rapido e spontaneo della lettura. Possiamo ascoltare una storia anche senza vedere, passerà ugualmente l’emozione e il contenuto se ci sarà la giusta dose di conflitto, psicologia, motivazione, intreccio, dialogo, l’identificazione con il personaggio avverrà. Se alla voce si aggiunge un po’ di musica, l’effetto sarà migliore. L’abbinamento con una dose di componente visual rafforzerebbe e chiuderebbe il cerchio del perfetto storytelling: immagine e voce. Ma oggi e adesso sto parlando solo di voce e di ascolto, va bene così.
Alziamo l’asticella. Facciamo compiere un salto alla narrazione audio per il patrimonio culturale e museale. Non limitiamoci a una strategia crossmediale che riporti l’ennesima descrizione (se pur scientifica) dell’opera o del luogo storico. Il formato audio che ospita didascalie, contenuti, cataloghi, interviste, è comunque buono e valido. Ma la narrazione è altra roba. Si ispira alla sceneggiatura, al cinema, alla struttura dei romanzi, ha una trama, e un copione. Riprendiamo le storie documentate nei luoghi, quelle dei personaggi che ne hanno fatto la memoria, andiamo a ripescare le fonti e diamo loro voce, inseriamole in una trama. Offriamo uno storytelling emozionale, di tensione, empatico, come se vedessimo un film o una serie TV. Facciamo rivivere la memoria dell’oggetto o del luogo con gli occhi e con le emozioni del personaggio storico che ha un legame con quel luogo o con quell’oggetto.
Nella missione dell’ascolto e della comunità che torna a radunarsi intorno alla narrazione di storie identitarie, in prima fila ci sono proprio musei, luoghi di arte e di cultura, complessi monumentali, operatori culturali e guide turistiche. Loro a disposizione tutto il visual del mondo. Il visual della storia dell’arte e della memoria storico-culturale è quello che insegna la vita, è quello che ricorda chi siamo, è quello che ha la chiave per decifrare i valori che ci fanno sentire “appartenenti a un gruppo forte“.
Non ci resta che schiarire la voce, prendere una storia e radunare di nuovo comunità, anche di sole orecchie.